19 FEBBRAIO 2005 D11 RICERCA
Arrivano scarpe hi-touch che seguono le ultime regole anatomiche: suola bassa, pianta larga e massima flessibilità
di Rosella Denicolò
TACCHI IN ESTINZIONE
Barefoot. Di tanto in tanto succede. Che una parola incominci a spingere, a premere per essere vista.
Spesso questa parola è in inglese perché, per molti motivi, quelle anglosassoni posseggono una forza predominante (o prevaricante). Questa volta a premere è stata barefoot. All’inizio sembrava riguardare una microscopica nicchia di persone molto salutiste che camminano scalze anche in città, sull’asfalto, in pieno agosto. Oppure persone (soprattutto americane) che fanno trekking scalze o (tedesche) che inventano sentieri ricoperti da aghi di pino, pigne, sassi, tronchi d’albero e ogni possibile asperità che serva a risensibilizzare il piede (sempre e rigorosamente nudo) e stimolare la percettività (vedi box). Margini, viene da pensare, anche se i margini hanno qualcosa da dire che va molto al di là dei comportamenti bizzarri. È come se sottolineassero. E questa volta la sottolineatura riguarda i nostri piedi. Anche loro ai margini, ma non marginali, se ci si occupa di salute e psicologia. Così poco marginali che da interesse di pochi salutisti la questione sta coinvolgendo gli stessi costruttori di scarpe: piccoli marchi che lavorano sulla sperimentazione e grandi marchi sportivi che trasferiscono queste ricerche a livello di massa. Secondo uno studio decennale della Podiatry Society dello Stato di New York, il 99 per cento dei piedi è perfetto alla nascita, l’8 per cento mostra delle deformazioni a un anno, il 41 a cinque e l’80 per cento a venti. Nelleke Don è una consulente aziendale olandese che basa il suo intervento sulla Somatica, un approccio che, negli ultimi vent’anni, ha iniziato a studiare le interazioni tra i valori culturali e la postura, il movimento, le emozioni. All’interno di questa ricerca è stato interessante indagare proprio la relazione tra il tipo di scarpe indossate e la psicologia, la percezione di sé. «In uno dei miei ultimi lavori di consulenza per un marketing forum di Amsterdam», racconta, «è arrivata in seduta una signora elegante che indossava un paio di scarpe con i tacchi molto alti. Il tema del forum era il rapporto tra corpo e lavoro. Questa signora sembrava stanca, come svuotata. Ha cominciato a parlare delle responsabilità di cui era investita e della fatica a sostenere tutto quel peso. Mentre parlava notavo le sue spalle larghe. Sembravano appese, tutte tirate in su. L’ho invitata a rilassarsi, a respirare e lei a un certo punto si è tolta le scarpe. I suoi piedi hanno attirato la mia attenzione: si sono appoggiati al pavimento in un modo molto strano, sembravano accartocciati, distorti. Ci siamo scambiate uno sguardo significativo e lei ha detto: mi fanno molto male, è per via di queste scarpe che sono costretta a portare tutto il giorno. Dopo una pausa ha spiegato qualcosa che per me non era così ovvio: per una donna che ha un ruolo di dirigente, i tacchi alti sono d’obbligo, altrimenti non viene presa sul serio. Questa donna comunicava un senso di fragilità, di mancanza di stabilità, come di chi è costretto a camminare sempre sulle punte. Con una base d’appoggio così piccola, anche le responsabilità diventano più pesanti. Ho pensato che, per andare avanti nella seduta, la cosa migliore era darle la possibilità di sentire cosa cambiava allargando questa base d’appoggio. E dopo una serie di esercizi di rilassamento per i piedi l’ho invitata a camminare scalza». «Tra qualche decennio le generazioni future guarderanno alle nostre scarpe con lo stesso stupore con cui guardiamo oggi a quelle che indossavano in passato le donne cinesi», spiega Jader Tolja, medico psicoterapeuta specializzato in Somatica. «In entrambi i casi i piedi hanno parti ritratte, atrofizzate». Una atrofizzazione vissuta da tutti come necessaria, un prezzo da pagare alla modernità e all’immagine. «I tacchi alti sono considerati oggetti che danno forza perché innalzano e, secondo un immaginario molto ingenuo, l’alto corrisponde al forte», continua Jader Tolja. «In natura vale esattamente il contrario: più sei vicino alla terra, più sei stabile e forte. Nelle arti marziali è chiaro: più riesci a tenere il baricentro basso, più sei potente. Più forza vuoi, più devi andare verso il basso. Ma, nella nostra cultura, la vera forza viene scambiata con l’immagine della forza. L’immagine ti vuole su, in avanti, proiettato fuori. Come un supereroe, stretto in basso ed espanso in alto, perché in una società sempre più sedotta dall’immagine la forza si deve anzitutto vedere. Così, per tirarsi (letteralmente) su, si mettono scarpe con il tacco alto. Nutrendo l’illusione di rafforzarsi quando, in realtà, ci si indebolisce».
PIÙ ALTI MA FRAGILI
«È una sorta di circolo vizioso: ci si finge forte con i tacchi e dopo due anni si diventa deboli davvero, anche se la situazione di partenza era di forza». Come spiegano le ricerche della Somatica, questo dipende da due fattori. Il primo è che i tacchi eliminano l’alternanza tra contrazione e distensione e rendono cronica la tensione dei muscoli della gamba. I muscoli si fissano in estensione, la gamba diventa più sottile e asciutta e invecchia precocemente. Il risultato, insomma, è il verificarsi di un congelamento prima fisico e poi psicologico. Il secondo motivo è che, a causa dei tacchi, la schiena deve compensare con una tensione dei muscoli del diaframma: un altro irrigidimento che impedisce di inspirare ed espirare fino in fondo e blocca lo scorrere dell’energia a tutti i livelli. Basta anche un piccolo tacco, insomma, per creare questa cascata di eventi.
Molti ortopedici, tuttavia, considerano un tacchetto di qualche centimetro funzionale per la nostra postura e per la salute del corpo. «È una delle idee più stravaganti della nostra scienza medica», spiega l’osteopata francese Jean Claude Faroux. «Anche se a prima vista può sembrare sensata: se abbiamo sempre usato tacchi e dunque la nostra muscolatura posteriore si è accorciata e congelata in una situazione di tensione, quando li eliminiamo improvvisamente proviamo un senso di instabilità. Ma è un inconveniente che scompare se il riadattamento è lento e graduale. Molti posturologi non capiscono che non puoi eliminare i tacchi da un giorno all’altro. Secondo loro la natura fa volare le aquile, fa nuotare i pesci ma, fabbricando gli uomini, si sarebbe dimenticata due centimetri di tacco. Ci pensano loro, a colpi di tacco, a correggere gli errori della natura». Se è vero che la forza di un uomo dipende anche dall’ampiezza del suo piede, resta il fatto che il passaggio da una forza puramente legata all’immagine a quella di una forza vera e sostanziale non sembra molto facile. «Quando una persona è abituata a vivere a diversi centimetri da terra, è interessante sentire cosa cambia quando atterra. Quando, attraverso esercizi e massaggi, incomincia a sciogliere il piede», spiega ancora Nelleke Don. «Una delle cose che si notano in terapia corporea è che, più una persona comincia a percepire il suo corpo, a sentire gli organi e il respiro, tanto meno è disposta a imbrigliare il piede in scarpe alte e strette. La voglia di camminare scalzi, di risentire i piedi riappare naturalmente». È un bisogno che sta ispirando anche molti designer, alla ricerca di nuovi modi per avvicinarsi al barefoot senza però eliminare le scarpe. A prima vista sembra una contraddizione. Non lo è più quando ci si ritrova tra le mani un paio di scarpette stranissime progettate da Robert Fliri e prodotte da Vibram. Il look è hi-touch: gomma nera, contrasti di colore, materiali di nuova generazione. E fin qui niente di strano. Ma la cosa totalmente insolita è che le Tatto (si chiamano così) somigliano a scarpette da ballo con alvei indipendenti in cui inserire le cinque dita. Robert Fliri, che è di origine altoatesina, ci ha lavorato per cinque anni, con la consulenza di uno studio ortopedico, ma soprattutto sperimentando personalmente il prototipo, camminando su e giù per le Alpi. «Con queste scarpe a poco a poco recuperiamo un modo di camminare che il nostro corpo aveva dimenticato», spiega. «Non è possibile calpestare le rocce come abbiamo sempre fatto, protetti da tre o quattro centimetri di suola. La camminata deve essere sensibile, attenta alle irregolarità del terreno». La suola delle Tatto è di gomma morbida e segue l’anatomia della pianta. «È una suola che protegge il piede», continua Robert Fliri, «ma allo stesso tempo gli consente di stare a contatto con le informazioni che arrivano dal terreno. Il corpo reimpara a calibrare il peso, ad aumentare il contatto con la terra. Il fatto che le cinque dita siano separate permette poi di riaprire gli spazi tra le ossa del piede e gestire al meglio l’equilibrio». Il piede stretto dentro una scarpa, infatti, ha possibilità di movimento molto limitate. Le dita sono strette, le ultime due dita si ritraggono e così le catene muscolari laterali, che sono fondamentali per dare la stabilità sui lati. Quando le ultime due dita sono distese, il piede si apre a ventaglio, è come un triangolo con il vertice nel tallone. In un piede sano le ossa, sia quelle del tarso che del metatarso riescono a modulare il movimento.
LE SNEAKERS SARANNO SENSIBILI
Questo dinamismo interno che ci permette di mantenere l’equilibrio nella postazione eretta, genera una grande stabilità e un senso di sicurezza anche psicologica. Le Tatto sono scarpe outdoor e sembrano ideali per allenare il piede e tutta la muscolatura della gamba quando camminiamo sugli scogli, sui prati e in montagna. Per l’asfalto e in generale per i terreni duri e piatti c’è un altro tipo di scarpa che si chiam Masai Barefoot Technology. Le Mbt (sono appena state introdotte in Italia, www.mbtitalia.com) sembrano tradizionali sneakers. La differenza si nota solo quando si indossano. La loro suola non sostiene il piede, non lo stabilizza. Al contrario, è come camminare su una sfera morbida, completamente sbilanciati. «È proprio per questo che i nostri piedi ricominciano a lavorare proprio come succede sui terreni irregolari», spiega Herbert Kristler, responsabile di Mbt Italia. «Il piede deve continuamente aggiustarsi per trovare la stabilità». Così i muscoli profondi della gamba, difficili da allenare e che facilmente perdono di tono, si riattivano. È un nuovo tipo di ricerca che coinvolge anche i marchi mainstream. Il primo è stato quello Nike, che ha appena presentato una scarpa ad alta flessibilità, progettata per riprodurre il più da vicino le condizioni in cui si trova un piede scalzo. “I tuoi piedi sono lo strumento di training più potente, sanno sempre cosa sta succedendo, ritorna a usarli”, recita lo slogan di presentazione sul sito Web della Nike Free 5.0 (www.nike.com/nikefree). Tutto è partito dalla ricerca ortopedica e biomeccanica della Nsrl (Nike Sport Research Lab), che ha registrato con macchine fotografiche ad alta velocità la corsa di dieci uomini e dieci donne a piedi nudi, su un prato. Così si è visto che il piede poggia prima sul tallone, poi la pressione passa sul lato esterno della pianta e infine sulle dita che si allargano per far presa sul terreno, prima dello slancio finale. I vantaggi sono evidenti: allenarsi a piedi nudi, o con scarpe che ne riproducono le condizioni, riduce gli infortuni, rinforza e migliora le prestazioni atletiche.
Trekking a piede libero Morbido, duro, liscio, bagnato, ruvido: riaprire il piede alle sensazioni attraverso fondi sempre diversi. È questo uno degli obiettivi dei percorsi barefoot, sentieri da percorrere rigorosamente scalzi. I più numerosi sono in Germania, nel Nord della Foresta Nera (Dornstetten), in Vestfalia (Havixbeck/Tilbeck), a Bad Sobernheim an der Nahe e a Penzberg. Per info www.barefoot.esmartweb.com; www.barfusspark.info. Un punto di riferimento italiano è il Club dei nati scalzi: www.nati-scalzi.org che ha allestito uno dei primi percorsi italiani a Roma sul Lungotevere Prati. Richard Keith Frazine è invece il guru del trekking senza scarpe. Ha scritto un manuale che è una bibbia per la tribù degli scalzi e che si intitola The barefoot hiker (Ten Speed Press) www.barefooters.org.
Articolo segnalato da: Rei