Ishi - Club dei NatiScalzi

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I DUE MONDI DI ISHI
“Come fate voi bianchi, con i guanti ai piedi, a sapere dove andare ???”
La storia de “I due mondi di Ishi” (“Ishi in two worlds” di Theodora Kroeber, 1961,
Univ. California)


Ishi, ultimo sopravvissuto dell’età della pietra nell’America Settentrionale fu trovato all’alba del 29 agosto 1911, seminudo e spaventato, in un recinto di un mattatoio nella California Settentrionale. Lo Sceriffo, chiamato, si presentò con la pistola, ma l’uomo non tentò di resistere: era stremato. Si lasciò mettere le manette e portare nel carcere della cittadina di Oroville, a tre miglia. Lo Sceriffo lo mise in una cella, non sapendo che pesci pigliare: l’uomo rifiutava da bere e da mangiare e non si abbandonava al sonno. Fece venire Indiani del posto e del vicino Messico, che lo interrogavano in varie lingue. L’uomo ascoltava senza capire e poi parlava una lingua incomprensibile agli altri, Indiani o bianchi che fossero. La voce dell’uomo misterioso cominciò a diffondersi finché il «Selvaggio di Oroville» non apparve sui giornali. Tra i lettori due giovani professori di antropologia dell’Università di California, che da anni registravano i dialetti indiani della regione, Waterman e Kroeber. Leggendo dell’uomo si resero conto che nella regione da cui proveniva avevano vissuto gli Yana, una delle tribù che più tenacemente aveva resistito all’arrivo dell’uomo bianco, anzi, poteva essere addirittura uno degli Yahi, la tribù più meridionale, ritenuta estinta. Telegrafarono allo Sceriffo di trattenere l’indiano fino al loro arrivo, per prenderne consegna, e lo Sceriffo accettò volentieri di sbarazzarsi dell’incomodo personaggio, anche perché non aveva motivi di tenerlo in prigione ed era per di più protetto dal Governo federale. L’Università poteva andar bene. Il prof. Waterman lo trovò con ancora indosso il grembiule da macellaio, mentre rispondeva cortesemente nella sua lingua che nessuno capiva. Quando Waterman aveva trascritto i dialetti Yana questi erano già quasi del tutto scomparsi ed erano parlati solo nel Nord e nel centro della zona abitata dagli Yana. Waterman, poi, nulla conosceva degli Yahi. Ciò nonostante cominciò a leggere la fonetica delle parole da lui trascritte, ma non successe nulla finché arrivò alla parola siwini, che significava pino palustre. A questa parola l’Indiano si illuminò e cominciò a ripeterla battendo sul legno di pino della branda. Ishi era felice e piano piano insieme a Waterman cominciò a trovare delle parole comprensibili a entrambi. Fu come aver sturato una bottiglia di spumante: Ishi cominciò a parlare e raccontare sentimenti troppo a lungo repressi, anche se Waterman non riusciva ancora a capirlo.
Era l’ultimo indiano selvaggio d’America: già da bambino faceva parte di un gruppetto di appena 12 persone fuggiasche, finché vecchiaia, malattie e violenza altrui lo avevano lasciato solo. Aveva vagato per 65 chilometri prima di imbattersi nel mattatoio... Ma ora aveva trovato un amico.
Waterman lo portò a S. Francisco e lo alloggiò temporaneamente al nuovo Museo Antropologico. L’Ufficio Affari Indiani approvò e cittadini di Oroville, prima che partisse gli offrirono indumenti e scarpe. Ishi indossò la biancheria, i calzoni e la camicia, e perfino il cappotto, ma rifiutò di mettersi le scarpe: erano troppo dure, lo facevano inciampare e impedivano ai suoi piedi il familiare, necessario contatto con la terra. La Gente di Ishi era vissuta in California per forse 400 secoli, ma al momento della sua nascita (forse 1862) la loro lotta per la sopravvivenza stava volgendo a una tragica conclusione.
La nazione Yana era la più piccola della California (circa 3000 persone), in un territorio di circa 65 km per 100 in cui gli Yana cacciavano, pescavano, raccoglievano frutti selvatici e radici, conciavano pelli e facevano piccoli manufatti e attrezzi.
Da buoni montanari erano forti, abili e veloci, ma la scoperta dell’oro in California attirò i bianchi invasori che portarono anche con loro il vaiolo, la tubercolosi e altre malattie prima sconosciute. Il bestiame dei bianchi pascolava nella valli Yana impoverendole e l’estrazione dell’oro inquinava fiumi pescosi.
Gli Yana furono costretti a cercare il cibo razziandolo, ma così i bianchi cominciarono ad attribuire loro una ferocia che non era reale, giustificandone l’assassinio. Nel 1861 gli Yana meridionali erano già estinti e quando Ishi aveva appena 2 anni cominciò una feroce rappresaglia dei bianchi contro gli Yahi, che in tutto potevano essere circa 400. La gente di Ishi (significa «uomo», perché non rivelò mai il suo vero nome, dato che gli era vietato farlo a gente non appartenente alla sua tribù) prolungò ancora di quasi 50 anni l’esistenza delle usanze Yahi. Nel 1865 una famiglia di coloni fu assassinata: ne nacque una spedizione armata in cui gli attaccanti (27) scaricarono i loro fucili e fu un massacro, cui solo Ishi e la madre scamparono. Quattro cowboy impegnati a radunare le mandrie sui monti che furono degli Yahi, completarono la strage degli ultimi trenta, uomini, donne e bambini. Ishi aveva circa 8 anni. Lui, la madre e pochi sbandati che si erano ritrovati insieme costituirono la più piccola nazione libera della California. Passarono anni a nascondersi da un luogo all’altro, a camminare su rocce e dentro i fiumi per non lasciare impronte dei loro piedi nudi (né Yana né Yahi portavano calzature, nemmeno negli inverni più nevosi), non spaccavano mai la legna per paura che si sentisse il rumore, tenevano il fuoco basso perché il fumo non salisse oltre gli alberi... Ma il popolamento dei bianchi comportò una lenta sparizione della selvaggina e anche gli ultimi Yahi tornarono a razziare le fattorie. Nel 1885 il colono Norvall trovò quattro indiani che stavano calandosi dalla sua capanna: avevano rubato qualche vecchio indumento perché in casa Norvall aveva solo dello scatolame, che per gli Yahi non poteva essere cibo. Dei quattro uno era un vecchio, poi c’era una giovane donna, un ragazzo storpio e Ishi. Li lasciò andare. Non li vide mai più, ma una notte la sua capanna fu di nuovo visitata e quando Norvall se ne accorse, vide che non mancava nulla, ma che erano stati lasciati due cesti di fattura Yana, forse in segno di gratitudine. All’apparire del nuovo secolo, nel 1908, Ishi fu avvistato mentre, nudo, pescava con una fiocina nel fiume. L’uomo che fece l’avvistamento raccontò la cosa ma non fu creduto.
La costruzione di un canale nei pressi nel nascondiglio dei 4 indiani superstiti (lo storpio era morto), portò i bianchi troppo vicini. La giovane e il vecchio fuggirono da una parte, Ishi dall’altra, ma la madre era troppo debole e fu lasciata nascosta sotto coperte. Fu scoperta lo stesso. Gli uomini della compagnia di scavo cercarono di essere gentili, ma non si capivano. Lei fu lasciata lì, mentre presero tempo per decidere era meglio portarla con loro. Il mattino dopo non c’era più: Ishi era tornato a prenderla. Per tutto l’inverno fu la sua sola compagnia, perché della giovane e il vecchio non si seppe più nulla. Ma morì prima che l’anno nuovo arrivasse. Resistette ancora un anno e mezzo prima di lasciarsi trovare vicino al mattatoio ...
Il viaggio in treno lo affascinò. Da piccolo lo chiamava il Demonio dell’uomo bianco, ma la madre lo aveva rassicurato che ingoiava solo i bianchi. Ora che era vestito come loro, l’avrebbe riconosciuto? Waterman fu molto delicato e presto Ishi si fidò di lui ciecamente. Per di più il Museo a S. Francisco era attrezzato con stanze per ospiti indiani di cui si voleva studiare la lingua. Molti degli oggetti di Ishi furono trovati e collocati in una piccola teca di vetro, cosa che lo aiutava a non perdere il contatto con le sue origini. Fu invitato a pranzo dalla moglie del professore e dai suoi due bambini. Era la prima volta che mangiava in una casa d’uomo bianco, ma fu molto educato e desideroso di imparare l’uso dei vari arnesi da tavola, imitando la padrona di casa. Lo portarono a vedere l’oceano. Ne aveva sentito parlare. Fu colpito non solo dalla sua vastità, ma anche dalla folla di bagnanti. Non credeva potesse esserci tanta gente! L’odore della folla lo infastidiva e non gradiva il contatto umano, anche se aveva imparato con cortesia a restituire una stretta di mano, considerandola un’ usanza dei bianchi.
All’inaugurazione del Museo ci fu un banchetto. Waterman e Kroeber non se la sentirono di includere Ishi e fargli ricevere tutta quella gente. Lo lasciarono libero di decidere e lui rimase presente, anche se in disparte, vestito di tutto punto alla moda occidentale, tranne i piedi, che erano scalzi. “Come fate voi bianchi a sapere dove dovete andare, con i guanti ai piedi?” chiedeva, chiamando guanti le scarpe ...

Già a novembre si era ben inserito nella tumultuosa società bianca e quando l’Ufficio Federale degli Affari Indiani chiese di lui i professori risposero che era libero di andare dove volesse. Ma lui espresse il desiderio di rimanere con loro fino alla fine dei suoi giorni. E così avvenne. Ogni domenica pomeriggio riceveva i visitatori, rispondendo alle domande (o facendosi tradurre le risposte più complesse da Kroeber), e dava dimostrazione sull’uso degli arnesi indiani e su come si tendesse un arco. Lo faceva volontariamente e spontaneamente, benché i due professori si fossero dati la pena di fargli avere una assunzione ufficiale come custode e un piccolo reddito più che sufficiente per i suoi limitati bisogni. Ishi aveva una grande abilità manuale e si trovò a suo agio anche con cenci e spazzoloni, e curava le teche del Museo come fossero proprie: trattava la spugna e la gomma per pulire i vetri come una piccola meraviglia e dimostrava gioia sincera nell’usarle. Fu molto grato per questo lavoro, che gli rendeva dignità e fierezza, oltre che a indipendenza economica anche se lui dava poca importanza al denaro. Poiché veniva pagato con assegno questo causò qualche piccolo problema aggiuntivo, ma i due professori con pazienza gli insegnarono a disegnare il proprio nome (Ishi era più che sufficiente) e un negoziante dei dintorni che lo conosceva e conosceva i due professori lo aiutò incassando l’assegno in cambio dei primi 25 dollari d’argento della sua vita. Con parsimonia usò qualche cent per comprarsi un fischietto e un caleidoscopio. Gli piaceva viaggiare sui tram e imparò a riconoscere le due linee che correvano vicine al Museo. Nel 1912 fece amicizia col dottor Pope della Facoltà di Medicina, e alla fine gli insegnò a tirare d’arco, cosa che a Pope piacque e arte in cui divenne molto bravo, per un bianco. Fabbricava tali e tanti oggetti che il Museo stesso dovette industriarsi per fargli venire la materia prima, che doveva avere certe caratteristiche. Nel 1914 si ammalò del suo primo raffreddore, poi di una tosse insistente che si trasformò in tubercolosi. Dopo tre mesi d’ospedale sembrava tutto passato, ma il male gli lasciò poco scampo. Fu ricoverato di nuovo, ma in ospedale stava male. Ricordandosi che ogni indiano ha il desiderio vivissimo di morire in casa propria i suoi tre amici professori presero la decisione di riportarlo al Museo e allestirgli un lettuccio in una sala molto luminosa e dalla quale Ishi godeva di una buona vista tutto intorno. Gli piaceva osservare gli operai sulle impalcature. Poiché la civiltà gli aveva fatto il dono della tubercolosi, volle combatterla secondo le istruzioni del dottor Pope, che lui aveva paragonato a uno stregone, e infine desiderò accettare la sconfitta preoccupandosi soltanto di pesare il meno possibile su quelli che lo assistevano. Morì il 25 marzo 1916. Ishi era religioso, ma aveva paura che il Dio Bianco non avrebbe ammesso volentieri un Indiano nella sua dimora. Il suo funerale fu eseguito alla maniera degli Yahi e lui fu sepolto con arco e frecce e alcuni oggetti che gli erano stati cari. I risparmi di Ishi, non essendovi eredi, erano nel museo: 520 monete da mezzo dollaro. Metà della somma andò allo stato e il resto fu versato da Waterman alla persona cui pensava che Ishi avrebbe voluto: il dottor Pope, che li utilizzò per una fondazione di ricerca che, alla data del libro (1961) era ancora attiva.

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